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La “tipologia” dell’Architettura, corrisponde ad un procedimento di classificazione per tipi sulla base di un’indagine statistica. “Esemplare singolo o schema ideale cui sia riconducibile, sulla base di caratteristiche comuni fisse, una molteplicità di oggetti” corrisponde alla corretta e generale definizione di tipo tratta da “G. Devoto – G. C. Oli – Il dizionario della lingua italiana – Le Monnier, Firenze 1990”. Dato che il lessico, oltre che essere alla base del linguaggio architettonico, è alla base anche del linguaggio scritto e parlato, rispetto al quale devono conformarsi anche le definizioni scientifiche e disciplinari, visto l’attuale abuso e inappropriato uso del termine è opportuno analizzare tale definizione lessicale sulla base della valenza disciplinare specifica dell’Architettura.
Il termine “esemplare singolo” si riferisce ad un oggetto della realtà, cioè dell’esperienza sensibile, mentre il termine “schema ideale” si riferisce evidentemente ad un concetto rappresentabile, tuttavia, per conformarsi come tipi entrambi i termini devono essere riconducibili ad “una molteplicità di oggetti” nuovamente riferibili, in quanto “oggetti”, alla sfera del reale e dell’esperienza sensibile del reale, dato che il termine “oggetto” è definito nello stesso dizionario come “entità fisica o spirituale in quanto contenuto di un’esperienza o di un’attività”.

In architettura, la ricerca tipologica, intesa come procedimento cosciente e intenzionale che risponde all’esigenza di classificazione dell’architettura e degli elementi che concorrono alla sua definizione, si sviluppa a partire dal XVIII secolo soprattutto con i contributi del Milizia, del Lodoli e del Laugier, i quali sono tutti protesi a collocare l’architettura nell’ambito di uno sviluppo culturale già profondamente orientato verso i metodi ed i temi della scienza.
Ma la definizione di “tipo” ancora universalmente accettata nell’ambito dell’Architettura è quella data nei primi decenni del XIX secolo da Antoine-Chrysostome Quatremère de Quincy nel suo “Dizionario storico”: “La parola tipo non rappresenta tanto l’immagine di una cosa da copiarsi o da imitarsi perfettamente quanto l’idea di un elemento che deve egli stesso servire di regola al modello… Il modello, inteso secondo la definizione pratica dell’arte, è un oggetto che si deve ripetere tal quale è; il tipo è per contrario un oggetto secondo il quale ognuno può concepire delle opere che non si rassomigliano punto fra loro. Tutto è preciso e dato nel modello; tutto è più o men vago nel tipo. Così noi vediamo che la imitazione dei tipi non ha nulla che il sentimento e lo spirito non possano riconoscere…”.

Un inquadramento teorico scientifico e rigoroso rispetto alla tipologia ed al concetto di tipo è stato elaborato soprattutto da architetti italiani del dopoguerra, a partire da Saverio Muratori fino a giungere, fra gli altri, a Paolo Maretto e Gianfranco Caniggia, che hanno formato una scuola di operatori nell’ambito della progettazione architettonica improntata verso un orientamento culturale di tipo deterministico rispetto a modelli comportamentali funzionali del processo di antropizzazione del territorio, non attribuendo la necessaria importanza alle implicazioni di natura simbolica, metaforica e referenziale in genere.

L’evoluzione teorica del concetto di tipo edilizio conduce alla definizione dello stesso come “sintesi a priori”, questo sia che si riferisca all’esemplare oggettuale sia che sia riconducibile allo schema ideale. Esemplificando aspetti teorici molto complessi, in termini antropologici più generali e archè-tipici, il concetto di casa esiste nella mente di chi la deve realizzare prima della sua costruzione, come sintesi di aspetti funzionali, materiali, religiosi, simbolici e referenziali, che costituiscono la cultura del “fare case” in un determinato ambito culturale e in un determinato tempo storico.

Questa sintesi a priori del concetto di casa, per niente mediata da schemi grafici o elementi oggettuali già esistenti costituisce il “tipo edilizio casa”, il quale dopo la costruzione, dopo essersi immerso nel reale subendone tutti i condizionamenti, tutti i limiti dell’ubicazione specifica e della realizzazione pratica, diviene oggetto reale: quella casa di quella determinata famiglia o tribù. La proiezione nel reale del “tipo casa” implica il riferimento ad esso per la costituzione di molteplici “oggetti casa” tutti diversi fra loro, contribuisce a costituire quel processo che determina anche quella incredibile complessità che si può ancora ritrovare in tutta la loro paradigmicità nel centro storico di Ostuni, nel quartiere Agliastrello di Noto, in quei pochi ambiti storici rimastici integri di Montreuil sur Mer.

Un “tipo edilizio” è tanto valido quanto più consente la produzione di molteplici e tutti differenti fra loro “oggetti edilizi”. Infatti dal momento stesso che viene proiettato nel reale l’oggetto edilizio a sua volta diviene riferimento per la costituzione di nuovi e differenti tipi edilizi, in quanto riesce ad interagire con la coscienza di chi ne fruisce come esperienza antropologica diretta e contribuisce a modificarne la sintesi a priori che a livello di coscienza spontanea determina nella mente dell’operatore il concetto di tipo edilizio specifico, nel caso in questione il “tipo casa”, che produrrà successivamente un’evoluzione anche di tutti gli “oggetti casa” che ad esso saranno riferiti.

In tal modo si innesta un processo di antropizzazione e classificazione spontanea dell’esperienza sensibile del reale definito come “processo tipologico”. Il processo tipologico è definibile come apporto sistematico di varianti al tipo originario che si sviluppa sia all’interno della dimensione temporale sia all’interno della dimensione spaziale. Quando lega l’evoluzione di tipi nel tempo all’interno della stessa area geografica si definisce come processo tipologico “diacronico”. Invece, quando lega lo sviluppo dei tipi provenienti da ambiti geografici differenti in un determinato periodo storico si definisce come processo tipologico “diatopico”.

Come si evince dalle suddette definizioni il processo tipologico viene sviluppato mediante l’esperienza diretta del reale che nelle culture storiche si opera interamente a livello di coscienza spontanea. Processo oggi impossibile da perseguire in quanto le interrelazioni che si svolgono a livello di coscienza spontanea dei singoli operatori-fruitori, sia in ambito diacronico riferito alle influenze storiciste di una singola area geografica, sia in ambito diatopico riferita alle influenze globalizzanti del tempo attuale, sono talmente complesse da renderlo praticamente impossibile. In effetti se domandiamo ad una persona che calca le strade dell’emisfero nord-occidentale del mondo quale sia il suo concetto di casa, ci rendiamo subito conto che in essa non esiste nessuna sintesi a priori di aspetti funzionali, materiali, religiosi, simbolici e referenziali, che costituiscono uno specifico tipo di casa, al massimo si può ottenere dei modelli di riferimento riscontrabili in aree geografiche diverse o in epoche diverse, ovvero nella casa del vicino socialmente più emancipato.

In questo senso risulta determinante il ruolo dell’architetto che dovrebbe mediare criticamente il processo tipologico stesso. Questo ruolo tuttavia non legittima nessun operatore tecnico ad uscire dalle corrette e rigorose definizioni implicite nel processo tipologico, a scambiare la tipologia per il tipo, e soprattutto a definire schemi impossibilitati a subire qualsiasi sviluppo attuativo quindi a trasformarsi cioè da “tipo” ad “oggetto reale”. Un esempio straordinario di applicazione della coscienza critica al processo tipologico dell’edilizia di base è quello della cinquecentesca “strada nuova” di Genova (fig. 1) progettata da Galeazzo Alessi ed eseguita da Bernardino Cantone, dove una intera strada di nuova urbanizzazione è stata realizzata con una serie di palazzi, tutti completamente diversi fra loro (fig. 2), nonostante facciano riferimento a soli due o tre tipi, naturalmente intesi come schemi ideali (fig. 3). Rimanendo a Genova, anche per quel che riguarda esempi di edilizia specialistica nodale, appartenenti allo stesso filone tipologico e riconducibili allo stesso tipo edilizio, le Chiese di San Fruttuoso di Capodimonte (fig. 4), di Sant’Andrea (fig.5), di San Damiano (fig. 6) e di Santa Maria del Prato (fig. 7), pur essendo coeve di epoca romanica e della stessa area geografica portano a risultati morfologici e caratteristiche architettoniche completamente diverse fra loro. Sempre in ambito di edilizia specialistica nodale, ancora più evidente risulta essere il confronto fra il tipo edilizio e l’oggetto architettonico reale se prendiamo a riferimento le chiese cinquecentesche del Redentore a Venezia di Palladio (figg. 8 e 9) e del Gesù a Roma del Vignola (fig. 10) con facciata di Giacomo della Porta (fig. 11).

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